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Autore: Sergio

Il segreto del putt autentico

Green raggiunto, ti accingi a prendere il tuo putter sistemato con cura nella sacca. Adesso tocca a lui, è il suo turno. Sei ad un passo dal chiudere la buca, dal portare a casa un buon risultato, e gli stati d’animo che ti attraversano sono molteplici. Le aspettative sono tante, e la paura di sbagliare aleggia nell’aria e ti attraversa i pensieri. Stringi quindi la pallina, la maneggi con fare solerte, la appoggi sul terreno, prendi la linea, sfoggi una tecnica provata e riprovata con il maestro nel putting green la settimana precedente. Ti chiudi in una sorta di concentrazione monacale, un ultimo sguardo alla buca e lasci andare il movimento.

Al di là del risultato finale e del numero di volte con cui avrai puttato, i commenti più in voga che ho il piacere di ascoltare da questo momento in poi sono: “Oggi non ne imbuco uno!” oppure “E’ da un mese che soffro il green!“. O ancora “In campo pratica sono un mostro, qui invece faccio casino anche dalla corta distanza”.

La domanda che ti pongo è: di chi sono quelle mani che stringono il grip? Cosa succederà se non avrai puttato bene? Qual è il vero significato che sta dietro a quel putt?”.

La tua mente può prendere il sopravvento, nonostante tu riconosca di aver tirato mille colpi simili a quello. Mai uguali, vero, ma il putt non è cambiato e la tecnica è sempre la tua. Il punto è che stai vestendo un abito più pesante e più scuro. Come se avessi addosso una pelliccia in piena estate! La paura di fare un buon colpo supera spesso la gioia di imbucare e le aspettative di agguantare un birdie o un buon par hanno il potere di bloccare potenzialmente anche il tuo colpo migliore.

Dopo aver fatto la dovuta analisi quindi, sgancia quel colpo naturalmente, fai dondolare il tuo putt al ritmo del tuo respiro e lascia partire il colpo che senti. Cioè quello che ti rende un tutt’uno con il green e che ti aiuterà a raggiungere il tuo obiettivo dalla posizione in cui sei.

Riappropriati della tecnica che possiedi: come ben sai le tue mani sono più esperte di quanto lo sarà mai la tua testa. E come diceva qualcuno in un noto film, lascia andare il colpo autentico!

La pozione per il colpo magico

Non di rado in campo partecipo a veri e propri momenti di magia: giocatori che per due, tre buche o addirittura nove di seguito, tirano ogni colpo con sicurezza e senza paura. Oppure leggono perfettamente il campo, la velocità del vento, le condizioni dell’erba o del bunker. O elaborano naturalmente strategie ottimali per gestire la gara e azzeccano sempre il bastone giusto per ogni colpo.

In fondo, sono loro stessi a dire: Mi sento magico! Non sbaglio un colpo! Oggi è tutto così semplice!

In questi casi, cosa succede al golfista? Le sue magie sono frutto di coincidenze isolate?

Sembrerebbe così ogni volta che questo “stato di grazia” finisce, e io devo rispondere a domande del tipo: Come ci sono riuscito? Come faccio a replicare quel colpo? La risposta però non sta nel mero gesto tecnico, ma nella capacità di replicare le condizioni positive di trance agonistica in cui vi siete assorti e da cui sono nate quelle magie. Non focalizzatevi sul colpo che avete giocato, dunque, ma riconoscete lo stato interiore che lo ha generato.

Volendo stilare una piccola guida per recuperare l’esperienza “magica”, una sorta di ricetta per ottenere la giusta “pozione”, vi consiglio allora di concentrarvi sul respiro, l’energia e gli organi di senso. Naturalmente, la pozione va assunta prima di entrare in campo: il momento più importante è quello in cui si decide di lasciare fuori dal terreno di gioco ogni fonte di distrazione e preoccupazione.

Sgomberate la mente da ogni pensiero agganciandovi al respiro. È il diaframma che mescola la pozione e, al tempo stesso, bilancia l’adrenalina che in dosi eccessive indurrebbe a un’eccitazione poco gestibile. Una buona tecnica respiratoria vi connette meglio, prima di tutto, con voi stessi, e poi con il campo. Adesso i piedi sono ben ancorati al terreno, che gli rimanda energia e linfa vitale; l’olfatto riconosce il profumo dell’erba su cui camminate, o quello dei fiori portato dal vento amico; il tatto è al massimo della percezione, voi siete un tutt’uno con il bastone e ormai riuscite a godere anche con l’udito il giusto impatto della pallina; con la vista, infine, vi sembra di indovinare già la traiettoria che la manderà in buca.

Come dite? Manca il gusto? Mettete in pratica la ricetta: sentirete di nuovo il sapore del colpo magico!

Articolo originariamente pubblicato su Golfando il 19 luglio 2016

Sport, divertirsi per migliorare il risultato

Che ruolo occupa il divertimento nei vostri allenamenti e poi nelle varie prestazioni? Divertimento, sì. Che cos’è? “Passare il tempo piacevolmente, provare piacere in qualche cosa”. E se lo dice la Treccani, fidatevi. Dalla mia esperienza, la maggior parte degli atleti si diverte soltanto quando vince o porta a casa il risultato. Tuttavia, anche nelle gare vincenti, ho difficoltà a notare un sorriso, un accenno di sorriso, o semplicemente un viso disteso. Certo, non suggerisco di scambiare il campo per un villaggio vacanze: sottovalutare una gara è l’ultima cosa a cui penso. Dico solo che il gioco è una cosa seria, ma pur sempre gioco rimane. E dato che lo sport è in primis questo: un gioco, e il gioco presuppone piacere e divertimento, mi sono spesso chiesta, appunto, dove fosse finito il divertimento.
A questo proposito, ricordo quello che Roberta Vinci, tennista numero otto del mondo, ha detto appena dopo aver vinto la semifinale US OPEN 2015 contro la numero uno del mondo, Serena Williams: «Mi sono svegliata questa mattina e mi sono detta: ok oggi ho la semifinale, cerca di divertirti, non pensare a Serena, gioca, divertiti divertiti divertiti e mai mi sarei aspettata di vincere. Non pensavo troppo al valore della partita in sé, quindi ho cercato di essere più tranquilla possibile, di godermi quei momenti che chissà se ricapiteranno mai». Ecco cosa intendo quando parlo del ruolo del divertimento nello sport.
Sappiano anche tutti gli appassionati dell’unico risultato utile (la vittoria) che Timothy Gallwey, considerato il “padre” del coaching moderno, pone il divertimento è alla base dell’incremento della prestazione. Se ci pensate, è un cambio di prospettiva importante rispetto all’idea che fonda l’eccellente prestazione soltanto sulla tecnica e sullo sforzo. Il nuovo triangolo proposto da Gallwey è Divertimento – Apprendimento – Prestazione. In altre parole, la performance migliora quando si poggia sul piacere di praticare lo sport scelto e sulla capacità di trarne nuovi insegnamenti durante e alla fine di ogni gara e/o allenamento. La dimensione del piacere e del divertimento permetteranno di abbassare la tensione e abbattere le aspettative, ed è proprio in quel momento che la prestazione può raggiungere il massimo esponenziale.
Perciò, mettete da parte un attimo il risultato e date valore a ogni gara, a ogni allenamento, e godetevi seriamente un gioco in cui crescere quasi senza accorgervene. Divertendovi potrete entrare in contatto in maniera più veloce e facile con le motivazioni più profonde che vi hanno portato a scegliere quello sport e a praticarlo con costanza e assiduità. Maggiore è il piacere, maggiori saranno i progressi che otterrete. Quindi buon divertimento e buona crescita!

Il modo giusto per fare colpo

Palline che volano, zolle che decollano, corpi che si avvitano nei loro migliori swing. Nel campo succede di tutto, così come nella vita: assistiamo a continui cambi di strategie, a una alternanza di sorrisi e bronci, sguardi con occhi di tigre o di agnello.

Questa giostra di decisioni e emozioni richiede un continuo impegno di risorse personali.

La risorsa a cui voi golfisti dovete appellarvi, e che mi ha sempre affascinata, è l’attenzione: l’apice della concentrazione che ogni volta, durante le lunghe ore di gara, siete chiamati a raggiungere quando colpite la pallina, da qualsiasi posizione essa sia.

Tuttavia, non è sempre facile ottenere questo grado di attenzione. In campo, infatti sento spesso discutere – anche durante la gara – più dei colpi precedenti o di quelli futuri che del colpo che ci si appresta a tirare. “Se quel colpo fosse stato più a destra non sarebbe finito in acqua”.

“Se alla buca nove fossi uscito meglio dal bunker, adesso sarei due colpi sotto”. “Se alla buca dieci gioco come sempre, porto a casa un bel birdie” e altre frasi analoghe. Tutte potenzialmente vere, ma il più delle volte pronte a distrarre la vostra attenzione dal tiro che dovete affrontare in quel momento, condizionandolo.

Un modo più efficace di “stare in campo” invece è quello di affrontare ogni colpo come fosse il primo e l’ultimo della gara. Se ci pensate un attimo, infatti, il colpo futuro non è ancora arrivato e quello venuto male è ormai andato, quindi è inutile spenderci energie: potete influenzare solo il momento presente. E poi, perché pensare di giocare la stessa buca di un campo in cui si è già stati, sempre allo stesso modo? Se siete veramente attenti, non riprodurrete mai esattamente gli stessi gesti: l’attenzione deve essere sempre maggiore del naturale automatismo con cui gestite un colpo.

In altre parole, l’unico colpo su cui potete avere un’influenza reale, e che può cambiare le sorti del vostro score, è quello che state per tirare. La vostra capacità di dedicarvi completamente al singolo tiro è legata alla generazione di nuovi stimoli e nuove percezioni, liberi dall’influenza delle sensazioni e delle emozioni legate al passato. Se provate a usare così le vostre risorse interiori e le vostre migliori abilità tecniche, farete davvero colpo!

Articolo originariamente pubblicato su Golfando il 23 giugno 2016

Il campo non è il vostro nemico

Specchi d’acqua, bunker e fossi di sabbia. Alberi che oscurano la visuale, erba alta da cui sembra impossibile uscire e bandiere da conquistare su ogni obiettivo. Potrebbe essere la descrizione di uno scenario di guerra, terra di scontro fra soldati armati delle peggiori intenzioni.

Invece è la possibile fotografia di un più serafico campo da golf, che non c’entra nulla con la violenza o i sentimenti di guerra, ma soprattutto non incarna un nemico da sconfiggere. Per fortuna, si tratta solo del luogo che ospita il vostro gioco.

Eppure, prima ancora di iniziare a giocare, sento spesso i golfisti esordire con frasi come “questo campo è difficile”,“questo campo è pieno di ostacoli”, “l’erba del rough non è curata”, “i bunker non hanno sabbia” e simili. Tutte espressioni che, se ci fate caso, trasformano il campo quasi in un soggetto volutamente ostile. A mio avviso, concentrarsi su dati che non sono modificabili, né che dipendono da voi, può diventare motivo di frustrazione che in alcuni casi rischia di originare un blocco.

Una via di uscita da questo “bunker” mentale, potrebbe essere allora quella di considerare il campo e i suoi ostacoli come parte integrante del gioco e, anzi, tappe necessarie per raggiungere il green e l’ultima buca. In altre parole, quelle che all’inizio possono sembrare nemiche da abbattere, in realtà sono solo le condizioni imprescindibili per trascorrere ore di gioco e ottenere un risultato utile al vostro handicap.

Il campo è il punto di partenza, la vittoria non può che passare da lì, ed è con lui che si deve entrare in connessione, instaurare un vero e proprio feeling. Perciò, accettatelo e trattatelo bene: questo cambio di prospettiva sarà determinante per il vostro gioco. Assecondare la forma del terreno e le asperità del percorso potrebbe farvi raggiungere lo score che ancora vi manca, liberare al meglio le vostre potenzialità e, perché no, divertirvi lasciando ogni pensiero ostile fuori dal campo: il vostro alleato numero uno.

Articolo pubblicato originariamente su Golfando il 7 giugno 2016

Luigi Busà: “Il Coaching è la mia arma in più”, intervista al campione mondiale di karate.

Insieme con altre migliaia di fan, grandi e piccini, del mondo del Karate, seguo Luigi Busà da tempo immemore, non solo per le origini siciliane che ci accomunano. Karateka di riconosciuto valore mondiale nella specialità del kumite, ossia dei combattimenti, Gigi – come viene chiamato dagli amici – ha raggiunto risultati sportivi nella sua disciplina mai visti in precedenza. Undici volte di seguito medaglia d’oro ai Campionati italiani, dal 2006 ad oggi, ha ottenuto il più alto gradino del podio anche agli Europei (nel 2007 e nel 2012) e ai Mondiali (nel 2006 e nel 2012), “accontentandosi” in altre quattro occasioni dell’argento: nel 2009 e nel 2011, quello europeo; nel 2010 e nel 2014, quello Mondiale.

Qualche settimana fa, dopo l’undicesimo titolo iridato ai Campionati Italiani, gli ho chiesto di condividere dal suo punto di vista per i lettori di Coaching Time, la sua esperienza con il Coaching.

Gigi, cosa ti ha spinto a rivolgerti a un coach dello sport?
In primis, semplice curiosità. Avevo già sentito parlare di Coaching da alcuni amici e colleghi della Nazionale che avevano lavorato con un coach e mi avevano raccontato i benefici ottenuti. Allora mi sono chiesto in cosa potessi migliorare io: dopo tutte le medaglie che avevo vinto c’era qualche altro gradino da scalare?

Il lavoro che abbiamo fatto insieme ha dato una risposta a questa tua domanda iniziale? Com’è normale, non sapevi bene cosa aspettarti dalle nostre sessioni.
In effetti sapevo solo che gli incontri erano individuali. Dopo mi sono reso conto che consistevano perlopiù di chiacchierate in cui raccontavo le mie esperienze, per poi focalizzare alcuni aspetti della mia attività sportiva in cui mi sarei potuto spingere oltre.

3) Be’, in realtà quelle che chiami “chiacchierate”, sono sessioni strutturate in base a una precisa successione di fasi. Comunque, quali sono stati i primi risultati di queste “chiacchierate”?

Quando ti ho contattata, come ricorderai, nel mese di settembre del 2014, ero demoralizzato: una gara internazionale non era andata bene ed ero addirittura arrivato a pensare che avrei smesso con lo sport che amavo profondamente. Questo mi ha convinto a iniziare il percorso di coaching che ho trovato intenso soprattutto per l’allenamento mentale che ha richiesto. Allenamento che però mi ha portato nel mese di novembre a vincere l’Argento ai Campionati Mondiali. Ma, al di là della medaglia, il successo per me più grande, quello che ha fatto la differenza rispetto al passato, è stato l’approccio con cui ho affrontato la gara, in tutte le sue fasi: in quella iniziale di preparazione, poi durante la stessa competizione, e dopo l’effettiva prestazione. Mi sentivo decisamente più rilassato e questo mi ha permesso di godere ogni aspetto della gara, soprattutto la fase di preparazione, che da sempre affrontavo con più difficoltà. A questo proposito, significativi sono stati gli ultimi Campionati Italiani disputati qualche settimana fa, che ho affrontato dopo un grave infortunio: grazie al lavoro svolto insieme durante il percorso di coaching sono riuscito a mantenere un approccio positivo nonostante tutto quello che avevo vissuto per riprendermi e malgrado la forma fisica non ottimale. In ogni momento avevo ben chiaro l’obiettivo e conoscevo i miei limiti, ma anche grazie a questo sono riuscito a difendere il titolo.

Quindi, cos’è stato determinante per affrontare meglio ogni momento della gara?
Ho avuto la possibilità di mettere a fuoco alcune cose che prima facevo inconsapevolmente e mi portavano a vincere, scoprendo che potevo replicarle di proposito. Aggiungo, se posso, che durante il percorso di coaching ho scoperto che prima davo troppo valore a una sconfitta e che invece, vivendola in un altro modo, potevo mantenere comunque alte sia la mia autostima che la sicurezza in me stesso. Ho anche capito che dalla sconfitta, anzi da una gara non vinta, potevo prendere degli spunti positivi su quali aspetti migliorare e come agire diversamente alla gara successiva. A pensarci bene, la più grande conquista l’ho fatta in ambito personale: prima affrontavo il mio lavoro isolandomi, adesso ne condivido maggiormente tutti gli aspetti e i risultati con chi mi sta accanto. Una novità che si riverbera in positivo nei miei rapporti privati, con la mia famiglia, e influisce sul mio benessere personale.

Dopo quello che hai raccontato e le consapevolezze maturate, mi daresti la tua definizione di Coaching?
Credo che il Coaching, per una persona che fa uno sport ad alti livelli come me, in cui a volte hai la sensazione di essere da solo contro il mondo, sia indispensabile. Per me è l’arma in più. Tra due sportivi, affidarsi al Coaching può decisamente fare la differenza: poter attingere e coltivare nuove risorse costituisce un allenamento ulteriore per esprimere al meglio il tuo potenziale. È uno strumento che ti può fare arrivare all’eccellenza, che completa l’atleta e, se ti fidi e ti affidi, ti aiuta a crescere e cambiare dove desideri.

Un’ultima domanda, promesso: consiglieresti un percorso di Coaching a un tuo collega/amico atleta?
Certo, senza alcun dubbio. Tutti gli sportivi, di ogni livello, dovrebbero farlo, soprattutto chi come me pratica uno sport individuale.

Fuori dalla Comfort Zone

Avete mai sentito parlare di “Comfort zone” ? Magari ancora no, ma è certo che nell’area di comfort – per dirla in italiano – ci siamo capitati un po’ tutti almeno una volta nella vita. La “Comfort zone”, secondo la puntuale definizione di Alasdair A. K. White, autore della “Teoria della comfort zone”, è:
“La condizione mentale in cui la persona agisce in uno stato di assenza di ansietà, con un livello di prestazioni costante e senza percepire un senso di rischio.”

L’assenza di ansia e la sensazione di avere il controllo delle cose, il più delle volte sono garantite dalla ripetizione di gesti e azioni che conosciamo bene e da una vita di ritmi consolidati. A volte, però, se ci ascoltiamo profondamente, emergono aspetti del quotidiano che possono risultarci stretti e configurarsi come gabbie.

A pensarci bene, la vera crescita e il miglioramento personale o una maggiore qualità delle prestazioni, si ottengono spesso quando si sperimenta una cosa mai fatta prima o, viceversa, quando si vive una condizione già nota con un approccio differente. Detto in altre parole, cresciamo e miglioriamo se ci assumiamo nuovi rischi in termini di atteggiamento e modi di pensare, uscendo dalla cosiddetta “area di comfort”. Tutto ciò che di nuovo accadrà sarà fonte di apprendimento e di nuove esperienze.

Immaginate un bambino di sei/otto mesi che inizia a fare i primi passi, prima accompagnato dai genitori, o dai nonni o dagli zii; poi, piano piano, solo con la sicurezza di due mani che lo sostengono; poi solo di una, poi da solo. A quel punto comincerà a cadere, si rialzerà e riproverà e, ogni volta, con maggiore consapevolezza: prima capirà come si mettono i piedi, poi dove mettere la forza e, alla fine, come bilanciare il bacino. Tutto grazie alla forza dell’intuizione e all’ascolto libero di sé. Finché, un giorno, vedremo il piccolo camminare felice e a passo spedito.

Pertanto cadrete e vi rialzerete, perché la vita procede sempre per nuove esperienze e apprendimenti!